Il mito della reattività nell'allenamento e nella valutazione di un portiere

images/2013/portiere.jpg

di Luigi Malavasi

Vaghe reminiscenze di studi universitari mi inducono ad anticipare la tesi di questo breve articolo, dal momento che la sede di pubblicazione consiglia una certa immediatezza. Ebbene, senza giri di parole, vengo al punto: nell’allenamento e nella valutazione di un portiere, la reattività costituisce a mio parere un aspetto non trascurabile, ma di certo non di primaria importanza.

Per chiarire, pongo subito una domanda (provocatoria, per certi versi): nel corso di una partita, quante parate il portiere effettua sfruttando doti di reattività? E quante, invece, per merito di un corretto posizionamento, di una tattica efficace o grazie alla rapidità di piedi nell’uscita e alla capacità di anticipo? La domanda contiene già, in nuce, molti validi elementi per abbozzare una risposta. In altre parole, non si può certo sostenere che, nella comparazione di un certo numero di portieri, il più forte sia necessariamente il più reattivo. Arpad Sterbik, per esempio, è indiscutibilmente un grandissimo interprete del ruolo, pur non essendo un fenomeno di reattività, considerata anche la mole. Al contrario, Marian Zernovic, portiere della nazionale slovacca, è, come si usa dire, “un gatto”, eppure nessuno si sognerebbe di paragonarlo al campione originario di Senta.

Ora, cosa dobbiamo arguire da questa considerazione? Con tutta evidenza, sarebbe illogico trarre la conclusione che la reattività non serva a nulla. Ovviamente, essere reattivi è meglio che non esserlo, così come essere magri e in forma è meglio che essere in sovrappeso. Ma il punto non è questo. L’aspetto su cui mi preme fissare l’attenzione è la tendenza, invalsa più o meno in ogni angolo pallamanistico della penisola, a dedicare alla reattività buona parte dell’allenamento del portiere, magari anche con esercitazioni di per sé originali, creative e funzionali, ma che falliscono lo scopo primario: migliorare l’atleta nelle sue performance in campo.

Del resto, basta osservare una partita qualunque per accorgersi che il portiere riceve molti tiri dalla linea dei 6m (e va da sé che in questo caso la reattività sia poco utile), molti tiri che richiedono doti di lettura e anticipo (collaborazione con il muro, valutazione della traiettoria, conoscenza pregressa dell’avversario specifico), e infine alcuni tiri (non troppo frequenti, a dire il vero) rispetto ai quali una buona reattività è senza dubbio d’aiuto.

Ciò stabilito, suggerisco rapidamente alcune priorità di lavoro. Oltre alla tecnica – importantissima nella costruzione di qualsiasi atleta, a prescindere dal ruolo – è fondamentale che il portiere affini negli anni la capacità di anticipo. Molte parate che sembrano evidenziare una buona reattività, in realtà sono costruite a partire dalla lettura della situazione di gioco, che induce il giocatore intelligente e allenato a prendere in breve tempo una decisone fondata sugli esiti più probabili di una determinata conclusione. Esempio: pressoché tutti i portieri di alto livello reagiscono ad un tiro under head (il classico sottomano) anticipando il movimento in spaccata allo scopo di “sigillare” la linea, ovvero di coprire quanta più porta possibile nella parte inferiore. Questa scelta si basa banalmente su una valutazione statistica e di buon senso, che tiene conto del fatto che un tiro under head molto probabilmente sarà indirizzato in una porzione di porta che va da zero a tre quarti partendo da terra (per dirla nel modo più semplice possibile), ovvero in uno spazio che il portiere può gestire da una posizione di spaccata.

Altro aspetto decisivo da curare nell’allenamento è la tattica. Quando parlo di tattica del portiere mi riferisco alla capacità di scegliere il miglior comportamento possibile per fronteggiare una determinata situazione. Altro esempio: se si deve fronteggiare un tiro da zona laterale con traiettoria “in discesa” (ovvero con l’angolo di tiro che progressivamente si riduce), è bene non perdere gli appoggi (non saltare), onde evitare di subire conclusioni in controtempo come le classiche “girelle”, che in questa particolare circostanza, a fronte di un comportamento tatticamente errato da parte del portiere, se ben eseguite risultano pressoché imparabili.

In conclusione, allenare il portiere non significa limitarsi ad eseguire le classiche esercitazioni con le palline da tennis. Occorre al contrario dialogare con l’atleta, aiutarlo nel prendere le decisioni, sforzarsi (studiando) di capire il gioco da una diversa prospettiva (quella, appunto, della porta), e utilizzare lo strumento del video, sia per rivedere il portiere in azione, sia per analizzare il comportamento degli avversari. In tutto questo, la reattività certamente è d’aiuto, ma non va considerata un mito. L’allenamento potrà forse anche risultare meno creativo, meno gratificante, mentalmente più dispendioso; ma è questa – ne sono assolutamente convinto – la strada da percorrere.